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La partita del 2023 si gioca ancora su inflazione e geopolitica

Gennaio, tempo di previsioni per l’anno nuovo. Proliferano gli “outlook” 2023 nei report delle case di brokeraggio (sell side) e delle case di investimento (buy side). Si tratta in gran parte di previsioni economiche e di mercato che rappresentano la “visione della casa” e spesso hanno poco a che fare con le strategie di investimento effettivamente attuate dai singoli gestori. Da parte nostra, come già argomentato nella scorsa CEO letter, quando si tratta di vaticinare le prospettive economiche o di mercato dei prossimi mesi, “sappiamo di non sapere”. Preferiamo limitarci a fare il punto della situazione, descrivendo lo scenario di riferimento (baseline) del nostro portafoglio.

 

 

Esplicitare con chiarezza lo scenario in cui ci muoviamo ci aiuta a capire che tipo di partita stiamo per giocare nell’anno che si apre. È la base di partenza per impostare il portafoglio. Non solo: ci consente di stare in guardia contro il “confirmation bias”, cioè di evitare di dar retta solamente a quelle previsioni che confermano le idee che il portafoglio riflette già. Ragionare sulle ipotesi alternative. Sui rischi di coda.

Quello che segue è quindi un tentativo di definire il campo di gioco su cui pensiamo vada giocata la partita del 2023. Senza la pretesa di formulare previsioni dettagliate per l’andamento dei mercati o il corso delle variabili economiche.  Le condizioni di gioco possono cambiare a partita in corso e le decisioni su quanti e quali rischi prendere e in quale direzione costituiscono un continuo decisionale, non una scelta binaria si/no da prendere all’inizio dell’anno. 

Dove si gioca dunque la partita del 2023? Su due campi già noti: inflazione e Banche centrali da un lato. Geopolitica dall’altro. Vediamoli uno alla volta.

 

Primo campo di gioco: inflazione e banche centrali

Questa, volenti o nolenti, sarà ancora la variabile chiave che dovrebbe determinare la direzione dei mercati finanziari nel 2023. La nostra valutazione delle regole del gioco in questo campo si sintetizza così: nonostante l’azione delle banche centrali, non si torna allo status quo pre-2021; lo scenario new normal è ora quello della repressione finanziaria. 

Abbiamo sollevato il tema dell’inflazione fin dal febbraio 2021 (“Investire nell’era della repressione finanziaria”) per poi riprenderlo dopo lo scoppio della guerra in Ucraina (“I trend facili sono alle spalle: cosa fare?”). Il rialzo dell’inflazione e la reazione delle banche centrali è stato il tema dominante del 2022, prima con la sottovalutazione del problema da parte delle stesse (“è transitoria”!), poi con un’azione decisa di rialzo dei tassi di interesse. L’effetto sui mercati finanziari è stato brutale: il 2022 è stato il primo anno, dal 1870, in cui sia le azioni che i bond USA sono scesi entrambi più del 10%! 

 

Qual è la situazione a inizio 2023? 

Partiamo da 3 dati fattuali:

1) Powell (e Lagarde) non volevano passare alla storia per aver lasciato che l’inflazione andasse fuori controllo. Lo hanno dichiarato e hanno agito di conseguenza.

2) L’inflazione, pur rimanendo alta ha cominciato a recedere alla fine dell’anno scorso. 

3) Il consenso di mercato è che la stretta monetaria attuata finora sia sufficiente, e si aspetta che la Fed cominci a riabbassare i tassi di interesse già nella seconda metà di quest’anno (pivot).

In altre parole, il mercato si aspetta che dopo la fiammata del 2021/2023 si ritorni alla situazione prevalente tra il 2009 e il 2021, ovvero di stabilità dei prezzi, tassi di interesse bassi e crescita moderata ma sufficiente a mantenere il livello di piena occupazione. 

 

Noi non ne siamo affatto convinti, per una serie di ragioni: 

1.  I tassi di interesse reali, se misurati con l’inflazione effettiva, non quella implicita nei cosiddetti breakevens (aspettative di mercato), sono ancora negativi.

2. I rendimenti dei bond USA a lungo termine sono coerenti con un’ipotesi di recessione, sia pur lieve, ma non si conciliano con aspettative sugli utili ancora robuste o con il livello degli spread corporate, che rimangono inferiori ai massimi storici.

3. Gli effetti congiunturali della riapertura della Cina dopo tre anni di severo lockdown sono inflazionistici (materie prime ed energia).

4. Permangono tutti i fattori inflazionistici secolari che abbiamo elencato nelle scorse CEO letter: aumento dei conflitti geopolitici, demografia, bassa produttività, scarsità strutturale di materie prime ed energia, etc.

 

È possibile che l’inflazione continui ad arretrare nei prossimi mesi? Assolutamente sì. È plausibile una lieve recessione nel 2023? Anche. Ma entrambe le cose non autorizzano a dare per vinta la lotta all’inflazione. I precedenti storici (anni ’70) ci insegnano che l’inflazione procede ad ondate successive, e che per batterla occorre una dose di stretta monetaria ben maggiore (tassi reali positivi) e somministrata più a lungo di quanto fatto finora.

Ci sono quindi due possibilità: la prima è che l’inflazione atterri su un range più alto di quello precedente (diciamo 4-6%), a seguito delle politiche già attuate: ma questo non è coerente con l’attuale livello dei rendimenti a lungo termine e una curva dei tassi invertita. 

Oppure ci vorrà una dose di “medicina” monetaria più forte. Ma questo pone un secondo quesito: fino a che punto le Banche centrali sono disposte a spingersi nel combattere l’inflazione? Secondo noi la risposta più probabile è: non fino alla fine. Il motivo è che non potranno permetterselo, a causa del debito.  L’enorme quantità di debito del settore pubblico e privato, creato negli ultimi decenni. Ma soprattutto nella fase di politiche monetarie super accomodanti e tassi di interessi ultra-bassi degli ultimi dodici anni.

Si tratta della repressione finanziaria. Il costo del servizio del debito, sia privato che del settore pubblico, aumenta al crescere dei tassi di interesse, con un effetto che si intensifica nel tempo. Il rapporto tra debito (uno stock) e PIL (un flusso) non rende l’idea del problema. Quello che conta è il peso del servizio del debito sul reddito nazionale, che ha già raggiunto livelli critici in diversi paesi: per fare degli esempi, 20% in Francia, 15% in Giappone, 15% negli USA.

Questo farà sì che le banche centrali potranno essere determinate nella lotta all’inflazione, ma non TROPPO determinate, pena rendere il costo del servizio del debito troppo oneroso. E dovranno lasciare che sia l’inflazione a fare il lavoro “sporco” di riduzione in termini reali del costo del debito. Come già è avvenuto più volte in passato, con pesanti ripercussioni in termini di redistribuzione di valore: dai risparmiatori e dai creditori a favore dei debitori (soprattutto gli Stati).

Non stiamo pensando a scenari apocalittici. Dovremo imparare a convivere con un’inflazione più alta di quella sperimentata negli ultimi 20 anni, e con un livello di tassi di interesse insufficiente a preservare il valore reale della moneta e dei risparmi. Un bel cambio di paradigma per chi investe.

 

Secondo campo di gioco: geopolitica

Il secondo campo su cui si gioca la partita del 2023 è quello della geopolitica. Se sul piano macroeconomico formulare previsioni nel breve termine rappresenta un esercizio azzardato, a maggior ragione lo è per il quadro geopolitico, a causa della imprevedibilità delle mosse dei principali attori.  Quella che segue, quindi, più che una lista di scenari possibili è una lettura delle principali situazioni in corso, e un tentativo di prefigurare alcuni scenari di rischio alternativi.

La nostra ipotesi di base è che il quadro geopolitico rimanga instabile perché i principali conflitti sono strutturali e di non facile risoluzione, in un periodo di debolezza ciclica dell’economia mondiale. Ne verranno influenzate non solo le azioni e le obbligazioni, ma anche le materie prime e le valute. 

Quanto alle materie prime, i paesi produttori vedono solitamente aumentare il proprio potere   nello scacchiere geopolitico nelle fasi di forte restrizione dell’offerta, come quella che stiamo attraversando ormai da diversi anni. Sia in campo petrolifero, a causa del forte sotto-investimento in capacità produttiva di combustibili fossili a livello globale. Sia nel campo dell’estrazione e della lavorazione dei metalli necessari per la trasformazione energetica e digitale dei prossimi anni: rame, litio, cobalto. In quest’ultimo campo la Cina ha cercato negli ultimi anni di controllare l’intera filiera di lavorazione di alcuni metalli.

I più importanti campi in cui si gioca la partita geopolitica nel 2023 sono la guerra Russia/Ucraina; la questione Cina/Taiwan; la tensione USA/Cina sui semiconduttori. In aggiunta l’Iran, con la questione delle armi nucleari ancora aperta. 

Lo scenario più probabile per la guerra in Ucraina è quello di una prosecuzione del conflitto in corso, in cui nessuna delle due parti dispone della forza decisiva per imporsi sul piano militare convenzionale mentre una soluzione sul piano diplomatico appare lontana. I rischi di coda di questo scenario sono l’utilizzo di armi nucleari da parte della Russia, ma anche un taglio unilaterale della produzione di petrolio russo, che porterebbe ad uno shock petrolifero a livello globale. 

Un altro teatro di crisi potenziale rimane il Medio Oriente. Dopo il mancato accordo tra Stati Uniti e Iran sul tema delle armi nucleari, un attacco iraniano alle infrastrutture energetiche degli altri paesi dell’area è uno scenario plausibile.  Un attacco militare ai paesi vicini è infatti una soluzione che il regime iraniano ha già adottato in passato in periodi di tensioni interne, come quello che il paese sta attraversando a causa della feroce repressione delle proteste. Anche in questo caso il rischio di coda è uno shock sul prezzo del petrolio.

In Cina, il Presidente Xi Jinping ha consolidato il proprio potere al congresso del partito di fine 2022 e sta cercando di stabilizzare l’economia con l’inversione a U nella politica di contenimento del Covid e con la continuazione di politiche monetarie e fiscali accomodanti. In questo caso lo shock è di segno positivo, in termini di stimolo alla domanda interna, dopo tre anni di restringimenti dovuti alle politiche di lockdown. Ne dovrebbe derivare anche un incremento della domanda globale di materie prime e metalli industriali. Il che comporta anche un’ulteriore spinta alle tensioni inflazionistiche globali. 

Un attacco militare cinese a Taiwan appare improbabile nel breve periodo, ma non è uno scenario da escludere nel medio-lungo, dato che l’alternativa “pacifica” che la Cina prevede, ossia un processo di integrazione analogo a quello adottato per Hong Kong, non è accettabile per Taiwan a causa dei costi in termini di perdita di libertà e sicurezza. 

Infine, l’amministrazione americana continua nella propria politica di contenimento della crescita del rivale cinese sul piano militare, tecnologico e della crescita economica, soprattutto ricorrendo a controlli sulle esportazioni di tecnologie decisive, come i semiconduttori.

Lo scenario di rischio in questo caso è dovuto al ricorso da parte USA a ulteriori sanzioni secondarie per assicurarsi che i paesi alleati adottino in pieno le restrizioni alle aziende cinesi. In questo caso le tensioni politiche con la Cina e i rischi di un attacco a Taiwan sono destinati ad aumentare.

La conclusione di questa breve e non esaustiva carrellata dei rischi geopolitici è che le tensioni emerse negli ultimi anni ed esplose nel 2022 non hanno delle chiare soluzioni nel breve periodo, con l’implicazione che la volatilità sugli asset rischiosi rimane elevata. La maggior parte dei rischi elencati ha inoltre delle implicazioni inflazionistiche negli scenari di coda, e solo un caso, la cessazione delle ostilità in Ucraina, ha implicazioni deflazionistiche (calo del prezzo del petrolio).

 

Implicazioni sulle strategie di investimento: inadeguatezza del modello 60/40

Una delle nostre tesi di fondo è che il modello di diversificazione tradizionale basato sui due pilastri azioni-obbligazioni (il cosiddetto modello 60/40) sia in crisi. Tale modello ha retto le strategie di asset allocation per tutta la fase quarantennale di discesa dei tassi di interesse, ma non si adatta ad una fase in cui il processo deflazionistico iniziato negli anni ’80 del secolo scorso pare essersi esaurito.

Il 2022 ha dimostrato la fondatezza di tale tesi, con il mercato delle azioni e quello delle obbligazioni entrambi in (forte) discesa.  Questo non vuol dire naturalmente che un portafoglio bilanciato non possa registrare nuovamente performance positive in singoli anni, anche nel 2023! 

Infatti, in campo obbligazionario, è stata ristabilita una combinazione più accettabile di rischio/rendimento dopo il crollo delle quotazioni del 2022, anche se gli spread delle obbligazioni corporate non scontano ancora i livelli raggiunti in passato in periodi di recessione o rallentamento globale. In campo azionario, permangono aree di sopravvalutazione che sono state corrette solo parzialmente (Big Tech USA), ma in alcuni casi (Europa, Giappone, mercati emergenti) le valutazioni appaiono ragionevoli, anche se non tali da costituire una difesa robusta in caso di recessione.

Se però partiamo dall’assunto che lo scenario che abbiamo davanti a noi sia caratterizzato dai due elementi discussi in questa nota, ossia repressione finanziaria e instabilità geopolitica strutturale, appare ancora una volta evidente l’inadeguatezza del modello 60/40 ad affrontarli.

In un’epoca di repressione finanziaria, saranno da evitare i mercati dei bond governativi di quei paesi intenti ad attuare tale politica, ossia i maggiori paesi sviluppati. In un’epoca di instabilità geopolitica endemica, d’altra parte, gli asset più rischiosi come le azioni, sono più esposti al conseguente aumento della volatilità di mercato. Che fare, dunque?

Il primo punto è che cambiano gli obiettivi e le priorità della gestione di portafoglio. L’obiettivo principale diventa la protezione del valore dei portafogli in termini reali, più che la ricerca dei ritorni più alti come nella fase precedente (fase in cui la volatilità di mercato era stata artificialmente compressa dall’azione delle Banche centrali). 

Non potranno mancare quindi le materie prime e i metalli (sia industriali che preziosi) come componente strutturale del portafoglio, nonostante la mancanza di generazione di cash flow ne abbia in passato spesso determinato l’esclusione dai portafogli come asset primario. 

In secondo luogo, la componente liquida (cash) andrà considerata in una funzione diversa da quella tradizionale (asset privo di rischio), ossia per le caratteristiche di opzionalità che ne fanno un asset strategico in periodi di volatilità endemica.

D’altra parte, il cosiddetto premio di liquidità, che ha favorito il ricorso massiccio all’inserimento nei portafogli di asset privati (private equity e private credit) andrà riconsiderato in modo strutturale. Non solo per la presenza di una forte componente di leva finanziaria nella passata generazione di rendimenti di queste asset class. Rendimenti che sono messi a rischio di fronte all’aumento dei tassi di interesse. Ma anche perché in una fase di repressione finanziaria e di volatilità endemica il valore strategico degli asset liquidi (liquidabili) aumenta strutturalmente, rispetto ad una fase storica di stabilità dei prezzi e di volatilità medio-bassa. In altri termini la mancanza di valutazioni mark to market anziché fornire un “premio per il rischio”, diventa uno svantaggio strutturale. Scomparso il premio per il rischio a causa dell’enorme domanda di questi asset negli scorsi anni, è rimasto lo svantaggio della non liquidabilità, proprio quando se ne avrebbe più bisogno (volatilità). 

Infine, nel nuovo paradigma di repressione finanziaria e volatilità viene messo in discussione il tradizionale processo di investimento in due step: asset allocation e stock picking, proprio per la difficoltà delle singole asset class, tradizionali e alternative, di svolgere la loro funzione come in passato. Occorre un nuovo metodo, che noi abbiamo individuato nella “decostruzione” delle asset class tradizionali (equity, bonds) per “ricostruirle” in strategie non correlate tra loro, utilizzate in funzione dell’obiettivo di rischio/rendimento. 

È quello che abbiamo proposto ed adottato fin dal lancio di Plenisfer e del nostro primo fondo. Al momento sta dando buoni frutti. La strada è ancora lunga e la partita da giocare nei prossimi anni resterà complessa. La condizione per vincerla è avere ben chiaro in che campo si sta realmente svolgendo e quali sono le (nuove) regole del gioco.

 

Giordano Lombardo

CEO e Co-CIO Plenisfer Investments SGR

 

 

 

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