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Marco Mencini, Head of Research Plenisfer Investments SGR S.p.A.
Il Presidente eletto degli USA, Donald Trump, intende sostenere con forza la crescita economica del Paese, anche attraverso l’imposizione di dazi.
Secondo il consenso di mercato, per controbilanciare l'aggressività americana sul piano della guerra commerciale, la Cina potrebbe mettere in campo una mossa valutaria volta all’indebolimento della propria moneta.
Non siamo d’accordo con il consenso e pensiamo che le cose possano andare diversamente.
Una premessa: la Cina sostiene da anni il renmimbi con l’obiettivo di preservare la sovra performance dei bond emessi in valuta cinese rispetto a titoli sovrani europei e americani.
Un fatto: la Cina recentemente ha emesso in Arabia Saudita bond della Repubblica Cinese in dollari.
Non si tratta, a nostro avviso, di un episodio secondario. Quali possono essere le ragioni alla base di questa mossa? Riteniamo possa essere letta come un segnale della volontà della Cina di sottrarre agli Stati Uniti il monopolio della circolazione dei dollari offshore, ovvero il privilegio di emettere la valuta che rappresenta la riserva mondiale. E può, quindi, essere interpretata come un messaggio molto forte diretto ai paesi emergenti che oggi sono indebitati in dollari: la Cina mostra loro che potrebbe esserci un mercato alternativo.
Questa dinamica rappresenta un trend ancora in fase iniziale, che dovrà essere monitorato nel lungo termine, ma è certamente un segnale molto forte e positivo per i mercati obbligazionari dei paesi emergenti.
Tornando alle possibili evoluzioni valutarie, ci aspettiamo che la domanda di dollari aumenti costantemente negli USA a causa del crescente fabbisogno di indebitamento nazionale, indispensabile per gestire l’ingente deficit pubblico e supportare le politiche di taglio delle tasse qualora venga effettivamente realizzata dalla nuova Amministrazione Trump senza abbattere la spesa pubblica.
L’aumento potenziale dell’offerta di debito in dollari potrebbe continuare a tradursi in un aumento dei tassi a lungo termine: da inizio anno all’elezione di Trump abbiamo assistito a un rialzo di circa 70 punti base dei tassi dei governativi americani a lungo termine che si sono poi stabilizzati intorno ai 60 punti[1], ma, per le ragioni descritte, riteniamo questa dinamica possa proseguire, soprattutto quando, e se, vedremo tradursi nei fatti gli annunci di Trump.
Guardando all’euro, riteniamo che la sua debolezza rifletta quella delle politiche fiscali e una crescita economica anemica che, al netto del PNRR, sarebbe sostanzialmente negativa, che si sommano alla mancanza di riforme strutturali a supporto della crescita e alle crisi di leadership politica in atto in paesi chiave per l’economia come la Francia e la Germania. Se, per esempio, il nuovo governo tedesco che verrà eletto il prossimo febbraio mettese al centro della propria agenda il rilancio della spesa pubblica, ci troveremo con un ulteriore elemento inflazionistico che si sommerebbe a quello rappresentato dai dazi statunitensi.
In questo scenario, caratterizzato da un nuovo rischio inflazionistico, si creerebbe una situazione delicata per il mercato obbligazionario europeo che dovrà, peraltro, affrontare una fase di rifinanziamento nel 2026, anno a partire dal quale andrà a scadenza un ingente ammontare di emissioni governative. L’offerta netta (ovvero la differenza tra il debito che si stima l’Europa dovrà emettere nel 2025 e i bond in scadenza, al netto dell’attività di acquisto e vendita della BCE) del 2025, pari a circa 850 miliardi di euro[2], sarà storicamente quella più alta mai raggiunta.
E qualora il mercato non giudicasse adeguati i processi di stabilizzazione della finanza pubblica e dei livelli di debito europei - che potrebbero andare sotto ulteriore pressione in uno scenario inflazionistico – si renderebbe necessario emettere nuovo debito a tassi superiori a quanto oggi ipotizzato dal mercato.
[1] Fonte: Bloomberg
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