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Navigare la transizione secolare

Si può basare una strategia di investimento su previsioni macroeconomiche? La questione è dibattuta da sempre all’interno del mondo della gestione professionale.

 

Secondo i “grandi” investitori rappresentativi dello stile cosiddetto “value” (Howard Marks, Warren Buffett, per citare solo due tra i più noti) la risposta è un no deciso. La battuta sarcastica di Buffett su questo tema è quasi definitiva: le previsioni dicono più del previsore che dell’oggetto della previsione.

 

Dall’altro lato ci sono i cosiddetti investitori “macro” che includono la maggior parte dei gestori di fondi a reddito fisso e gli asset allocators. Ma anche i cosiddetti “macro hedge fund” che non solo basano le loro fortune sulle previsioni relative a tassi, indici e cambi, ma lo fanno affidandosi per di più alla leva finanziaria che magnifica profitti (e perdite) prospettici.

 

In Plenisfer, “macro” è una delle 5 strategie che utilizziamo per generare il rendimento obiettivo - affiancata da altre 4 strategie più bottom up e idiosincratiche - e si esplicita sulle stesse posizioni dei macro hedge fund, ma con una differenza fondamentale: non utilizziamo la leva. 

 

Inoltre, le nostre posizioni macro sono basate su solide considerazioni di “valore” di medio periodo (per es. tassi di interesse troppo bassi in una data condizione storica) e non su previsioni direzionali a breve, sulle quali non pensiamo di avere alcun vantaggio competitivo.

 

Ma non solo. Macro ha per noi anche un’altra valenza, ancora più pregnante.

 

Effettuare considerazioni sul quadro economico e geopolitico di fondo è per noi inevitabile alla luce del fatto che gestiamo una strategia “unconstrained” globale, cioè una strategia che non viene definita in funzione di un certo benchmark di mercato, ma parte, per così dire, da un foglio bianco.  

 

Per questo tipo di gestione pensiamo che l’analisi macroeconomica sia imprescindibile, perché un’analisi dei trend di lungo periodo fa da sfondo a tutte le scelte di portafoglio, non solo quelle macro in senso stretto, ma anche quelle di stock picking. 

 

Non solo: una strategia di investimento di successo è strettamente connessa all’abilità di individuare i cosiddetti “grandi punti di flesso” (major inflection points) dei trend macro di lungo periodo. Questi non accadono molto spesso, a volte ogni due o tre decenni: oggi pensiamo di essere di fronte a uno di questi

 

Quali sono gli elementi di questo punto di flesso? 

In parte li abbiamo già citati nelle lettere precedenti:

1) Dalla deflazione all’inflazione strutturale;

2) Dalla globalizzazione alla regionalizzazione dei rapporti economici internazionali;

3) Dall’abbondanza di materie prime ed energia, con conseguente declino secolare dei loro costi, alla scarsità di energia e di materie prime, soprattutto di quelle legate alla rivoluzione energetica;

4) Da tre decenni di efficienze legate alla rivoluzione nell’Information Technology ad un esaurirsi dei guadagni di produttività;

5) Da una situazione geopolitica caratterizzata da un mondo bipolare di guerra fredda, a un mondo multipolare con conflitti reali crescenti;

6) Dal calo secolare dei tassi di interesse al loro rialzo;

7) Dall’aumento storico delle valutazioni degli attivi rischiosi (la borsa USA valeva la metà del PIL nel 1980, vale 2,7 volte il PIL oggi) al loro calo prospettico;

8)Dalla riduzione strutturale delle tasse sui profitti d’impresa ad un’era di debiti pubblici enormi e in crescita, che pensiamo verranno finanziati attraverso maggiori tasse, anche corporate;

9) Dall’enorme espansione delle masse monetarie da parte delle banche centrali (Quantitative easing) soprattutto a seguito della Grande Crisi Finanziaria del 2008, all’inversione di queste politiche (Quantitative tightening).

 

Ognuno dei punti sopra citati è talmente ampio che meriterebbe una trattazione a parte, ma non è questa la sede.

 

Basti solo ricordare che se alcuni di questi argomenti sono ancora considerati controversi, una cosa è certa: molti sono legati tra di loro. È evidente che il trend di aumento strutturale dell’inflazione sia legato alla de-globalizzazione, alla maggiore scarsità di energia e materie prime, all’esaurirsi della spinta di produttività. Senza dimenticare altri fattori, come l’invecchiamento della popolazione in molti paesi sviluppati, con conseguente diminuzione della popolazione in età lavorativa. Infine, anche chi non concorda con la tesi friedmaniana che l’inflazione sia “sempre e comunque un fenomeno monetario”, difficilmente potrà negare che la crescita impetuosa delle masse monetarie post 2008 (QE) sia stata benzina su un incendio inflazionistico già destinato ad accendersi. 

 

Insomma, non c’è dubbio che nel prossimo decennio si prospetti un contesto macro molto diverso da quello degli ultimi due o tre decenni. 

Il punto che vogliamo sottolineare è però un altro

 

La situazione di mercato degli ultimi 40 anni è stata caratterizzata da inflazione e tassi di interesse bassi o moderati, oltre che da utili di impresa in costante crescita. Tale situazione, che ha contribuito a creare un contesto largamente favorevole all’investimento negli asset finanziari (nonostante le bolle e crisi di turno, come la tecnologia nel 1999 o l’immobiliare nel 2006/7), è l’ambiente economico che la maggior parte degli investitori professionali o privati hanno sperimentato anche a livello personale

 

Lo consideriamo il nostro mondo “normale”, la realtà ordinaria. Normale all’interno di quell’orizzonte temporale degli ultimi quattro decenni. E facciamo fatica a prefigurarci un mondo diverso in cui i trend che abbiamo vissuto non possano continuare come prima e, sia pure gradualmente, cambino direzione. Siamo vittime di “bias cognitivi”.

 

È per questo che ci sentiamo rassicurati quando le banche centrali dicono che l’inflazione è transitoria. Che i tassi di interesse ora devono salire, sì, ma poi torneranno a scendere. Ci fanno capire che torneranno a inondare di liquidità i mercati, al bisogno. È rassicurante quando gli analisti sostengono che l’era della scarsità che si prospetta (di materie prime, energia, lavoro) può essere superata da una nuova ondata di innovazioni. Quando i gestori dei fondi di successo degli ultimi 20 anni ci dicono che alcuni titoli “growth” - come i tecnologici - hanno visto un forte calo dai massimi, certo, ma ora comincia ad esserci valore.

 

Ma cosa accade se ipotizziamo che l’orizzonte temporale degli ultimi 40 anni non sia la normalità, ma l’anomalia e che ci sia stata una confluenza unica di forti trend che però hanno esaurito la loro corsa? In questo caso le cose cambiano.

 

I tassi di interesse possono scendere dal 14% allo 0 solo una volta.

 

Quarant’anni di apertura dei mercati finanziari ai paesi emergenti, con conseguente deflazione dei costi del lavoro e di produzione, non possono ripetersi un’altra volta. Anzi, quei paesi oggi concorrono con gli altri, in tutti i settori, anche nella tecnologia.

 

Decenni di materie prime a basso costo, grazie all’apertura della produzione dei paesi ex sovietici ai mercati internazionali, sono messi a rischio di fronte ad un mondo diviso in blocchi geopolitici ostili. E via dicendo. 

 

Qualunque sia l’evoluzione di questi fattori, anche solo ipotizzando che diventino meno estremi, o semplicemente cessino di marciare nella direzione precedente, allora dobbiamo iniziare a prefigurarci di investire in un mondo diverso da quello che abbiamo sperimentato personalmente per quarant’anni.

 

Naturalmente la cosa difficile non è costruire uno scenario diverso e considerarlo come quello di base. Questo è solo il primo passo. La difficoltà sta nel navigare la fase di transizione verso questo nuovo scenario, e prevederne la tempistica. 

 

Tutti oggi citano gli anni ’70 come punto di paragone per la situazione attuale.  Non ne siamo del tutto convinti. Le condizioni storiche, la struttura industriale, il ruolo degli operatori economici (sindacati, imprese, banche), la politica internazionale, erano profondamente diversi da quelli di oggi. La storia non si ripete in maniera identica.  Ma una cosa gli anni ’70 ce la insegnano.  L’inflazione non è salita in manera lineare per tutto il decennio: negli USA ha avuto tre picchi (nel 1970, nel 1976 e nel 1980) prima di essere domata definitivamente da Volcker. E dopo i primi due picchi si è dimezzata negli anni successivi prima di riprendere a salire. 

 

Cosa ci dice questo? Immaginiamoci di essere un investitore in quegli anni, preoccupato dell’aumento dell’inflazione. Il quadro è chiaro ex post, ma non lo era affatto nel durante. Avremmo visto rialzi dei prezzi seguiti da rapide discese, politiche monetarie prima restrittive poi accomodanti… avremmo avuto cioè diversi falsi segnali “di breve”. Esattamente come sta succedendo adesso. 

 

Quello che vogliamo dire è che impostare tutta la strategia di portafoglio su un cambio di regime così radicale è rischioso. Il trend di lungo periodo può avere degli stop e delle inversioni nel breve termine, come abbiamo visto con il rally azionario della scorsa estate.  Occorre quindi bilanciare nel portafoglio le componenti legate alla visione di lungo periodo con i movimenti più a breve termine, se vogliamo evitare gli eccessi di volatilità. 

 

Navigare la transizione è altrettanto importante che prefigurarla

 

Non ci sono certezze su quanto tempo ci vorrà e che forme prenderà. Quindi dobbiamo affidarci ad alcuni principi di investimento consolidati per arrivare nel nuovo regime senza subire troppo gli alti e bassi della transizionericerca del valore; solidità dei business model analizzati; visione contrarian.

 

Armati di questi principi possiamo affermare alcune ipotesi di lavoro che dovranno essere verificate di volta in volta e trattate come tali nei portafogli investiti. Tra queste vi sono:

1)Ogni cambio di regime è accompagnato da un cambio di leadership di lungo periodo nei settori di mercato azionario: in prospettiva, vediamo maggiori opportunità di stock picking nel “value” che nel “growth”; in Europa e Emerging Markets che negli USA; nelle small e mid cap piuttosto che nelle large cap.

2) Nella prima fase di aggiustamento i rendimenti dei titoli di credito corporate tenderanno a diventare competitivi rispetto a quelli azionari all’interno della “capital structure”.

3)La transizione verso un nuovo regime macro si interseca e interagisce con i cicli di accumulo/decumulo del capitale specifici di ogni settore. Per esempio scarsità di capitale e conseguente aumento dei ritorni nell’energia tradizionale o nelle commodities; abbondanza di capitale e calo dei rendimenti attesi in alcuni settori tecnologici come il cloud.

4) La fase di transizione è legata anche ad un probabile cambio di leadership nelle valute, dove la forza del dollaro (che riflette anche elementi di avversione a rischi recenti quali guerra e pandemia) viene gradualmente meno. Andranno considerate o valute meno soggette al deprezzamento derivante dall’inflazione o riserve di valore efficaci in termini reali (metalli preziosi).

5) Un assottigliarsi delle condizioni complessive di liquidità farà sì che dovremo evitare quelle aree che più hanno beneficiato dell’abbondanza di liquidità degli ultimi anni,  come alcune IPO o SPAC discutibili, business non profittevoli, etc.

 

Per navigare questa transizione quindi, oltre ad affidarsi a principi di investimento consolidati, bisogna avere ben chiaro che affidarsi a trend (beta) di mercato non basterà più. E nemmeno costruire portafogli con un approccio passivo o seguendo le regole e i silos dell’asset allocation tradizionale. Ci vorrà una gestione davvero attiva. Non mancheranno gli scossoni durante il tragitto: ma avendo ben chiari la direzione e l’obiettivo da raggiungere, potremo tempestivamente aggiustare la rotta, avendo la giusta flessibilità per poterlo fare. 

 

Giordano Lombardo

CEO e Co-CIO Plenisfer Investments SGR

 

 

 

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